da Giovanni Puccio | Ott 12, 2019 | Articoli
Nella rubrica Il dubbio psicologico proverò a fare chiarezza su alcuni quesiti della psicologia. Oggi si parla di PSICOTERAPIA E DINTORNI.
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1. Psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista e psichiatra sono un po’ la stessa cosa
VERO
Sbagliato!
Le figure professionali sopra citate sono quelle che, secondo la legge italiana, si possono occupare di salute mentale. Il percorso formativo dello psicologo prevede una laurea in Psicologia di cinque anni, un tirocinio professionalizzante annuale e il superamento dell’Esame di Stato per l’abilitazione alla professione e l’iscrizione all’Ordine degli Psicologi. Questa formazione fornisce allo psicologo molte risorse per sostenere e aiutare le persone a risolvere difficoltà che hanno un impatto negativo sulla sfera personale, relazionale, lavorativa, etc. Lo psicologo effettua quindi colloqui di sostegno, può somministrare test e fare diagnosi psicologica. Non può invece somministrare farmaci (non è un medico) né è abilitato per la terapia di disturbi psicologici maggiori. Il ruolo dello psicoterapeuta, se di formazione psicologica, corrisponde a quello dello psicologo, cui si aggiungono ulteriori competenze. Lo psicoterapeuta si è formato per almeno altri quattro anni, dopo la laurea in psicologia, acquisendo tecniche e strumenti specifici che gli permettono di intervenire anche in situazioni più gravi, attraverso la terapia. Se di formazione medica può anche somministrare farmaci. Questa disciplina si è evoluta in molteplici direzioni e differenti modelli: ognuno tratta, dunque, le problematiche psicologiche secondo il proprio paradigma di riferimento. Lo psicoanalista, ad esempio, è uno psicoterapeuta con orientamento psicodinamico. Lo psichiatra è un medico che, dopo la laurea in Medicina e l’iscrizione all’Albo dei Medici, ha ottenuto la specializzazione in Psichiatria. Questa figura professionale tratta i disturbi mentali da un punto di vista medico, considerando il funzionamento o non funzionamento del sistema nervoso in senso biochimico e attraverso la prescrizione di psicofarmaci. Altre figure come counselor, coach, motivatore e consulente filosofico si occupano di salute in senso più ampio ma non sono regolamentate dalla legge italiana: potenzialmente, chiunque potrebbe proporsi sul mercato con uno di questi titoli. Il mio consiglio, nel rispetto della libertà di rivolgersi alla figura prescelta, è quello di chiedere sempre le dovute informazioni al professionista contattato, riguardo alla sua formazione, al numero d’iscrizione all’Albo, alle competenze e al tipo d’intervento proposto.
FALSO
Giusto!
Le figure professionali sopra citate sono quelle che, secondo la legge italiana, si possono occupare di salute mentale. Il percorso formativo dello psicologo prevede una laurea in Psicologia di cinque anni, un tirocinio professionalizzante annuale e il superamento dell’Esame di Stato per l’abilitazione alla professione e l’iscrizione all’Ordine degli Psicologi. Questa formazione fornisce allo psicologo molte risorse per sostenere e aiutare le persone a risolvere difficoltà che hanno un impatto negativo sulla sfera personale, relazionale, lavorativa, etc. Lo psicologo effettua quindi colloqui di sostegno, può somministrare test e fare diagnosi psicologica. Non può invece somministrare farmaci (non è un medico) né è abilitato per la terapia di disturbi psicologici maggiori. Il ruolo dello psicoterapeuta, se di formazione psicologica, corrisponde a quello dello psicologo, cui si aggiungono ulteriori competenze. Lo psicoterapeuta si è formato per almeno altri quattro anni, dopo la laurea in psicologia, acquisendo tecniche e strumenti specifici che gli permettono di intervenire anche in situazioni più gravi, attraverso la terapia. Se di formazione medica può anche somministrare farmaci. Questa disciplina si è evoluta in molteplici direzioni e differenti modelli: ognuno tratta, dunque, le problematiche psicologiche secondo il proprio paradigma di riferimento. Lo psicoanalista, ad esempio, è uno psicoterapeuta con orientamento psicodinamico. Lo psichiatra è un medico che, dopo la laurea in Medicina e l’iscrizione all’Albo dei Medici, ha ottenuto la specializzazione in Psichiatria. Questa figura professionale tratta i disturbi mentali da un punto di vista medico, considerando il funzionamento o non funzionamento del sistema nervoso in senso biochimico e attraverso la prescrizione di psicofarmaci. Altre figure come counselor, coach, motivatore e consulente filosofico si occupano di salute in senso più ampio ma non sono regolamentate dalla legge italiana: potenzialmente, chiunque potrebbe proporsi sul mercato con uno di questi titoli. Il mio consiglio, nel rispetto della libertà di rivolgersi alla figura prescelta, è quello di chiedere sempre le dovute informazioni al professionista contattato, riguardo alla sua formazione, al numero d’iscrizione all’Albo, alle competenze e al tipo d’intervento proposto.
2. Quando vai da uno psicoterapeuta ti sdrai sul lettino e parli dei tuoi sogni
VERO
Sbagliato!
Si dovrebbe sempre parlare di psicoterapie, al plurale: come detto sopra, esistono diversi modelli terapeutici e, dunque, non tutti gli specialisti operano allo stesso modo. Secondo il Dizionario Internazionale di Psicoterapia (Nardone, Salvini, 2013) si possono distinguere otto diverse macro- categorie, caratterizzate da una prospettiva specifica, teorica e pratica, che le discrimina. Ci sono quindi psicoterapie ad orientamento cognitivista, comportamentale, eclettico, espressivo-corporeo, interazionale-strategico, psicodinamico, sistemico-relazionale e umanistico-esistenziale. Il mio consiglio per orientarsi in questa apparente jungla psicologica è quello di informarsi riguardo alla psicoterapia più adatta alle proprie necessità, chiedendo indicazioni precise al professionista e valutando concretamente i cambiamenti che si ottengono lungo il percorso terapeutico; ci sono, infatti, classi di problemi per cui alcune psicoterapie si sono rivelate scientificamente più efficaci rispetto ad altre.
FALSO
Giusto!
Si dovrebbe sempre parlare di psicoterapie, al plurale: come detto sopra, esistono diversi modelli terapeutici e, dunque, non tutti gli specialisti operano allo stesso modo. Secondo il Dizionario Internazionale di Psicoterapia (Nardone, Salvini, 2013) si possono distinguere otto diverse macro- categorie, caratterizzate da una prospettiva specifica, teorica e pratica, che le discrimina. Ci sono quindi psicoterapie ad orientamento cognitivista, comportamentale, eclettico, espressivo-corporeo, interazionale-strategico, psicodinamico, sistemico-relazionale e umanistico-esistenziale. Il mio consiglio per orientarsi in questa apparente jungla psicologica è quello di informarsi riguardo alla psicoterapia più adatta alle proprie necessità, chiedendo indicazioni precise al professionista e valutando concretamente i cambiamenti che si ottengono lungo il percorso terapeutico; ci sono, infatti, classi di problemi per cui alcune psicoterapie si sono rivelate scientificamente più efficaci rispetto ad altre.
3. Se vado da uno psicoterapeuta significa che non sono normale
VERO
Sbagliato!
Quando sento parlare di normalità mi viene sempre in mente un passo dello psichiatra Allen Frances. Nel suo Primo non curare chi è normale – contro l’invenzione delle malattie, ricorda che filosofi, indagini statistiche, psicologi, dizionari, medici e sociologi non riescono a dare una definizione completa ed esauriente della normalità, riuscendo al massimo a dirci che cosa essa non è. Così, continua Frances, la normalità finisce per essere “sotto esproprio – e se guardiamo con attenzione, forse noi tutti finiremo per scoprirci, chi più, chi meno, malati”. Questo va contro il senso comune che, basandosi su prassi socio-culturali largamente condivise, decreta e giudica in modo ingenuo o, peggio, dannoso. Andare dallo psicologo, invece, non determina alcuna accezione valoriale: tutt’al più, può descrivere una persona che, avendo curiosità, dubbi, difficoltà o disturbi di natura psicologica, si reca dal professionista più indicato cui sottoporli.
FALSO
Giusto!
Quando sento parlare di normalità mi viene sempre in mente un passo dello psichiatra Allen Frances. Nel suo Primo non curare chi è normale – contro l’invenzione delle malattie, ricorda che filosofi, indagini statistiche, psicologi, dizionari, medici e sociologi non riescono a dare una definizione completa ed esauriente della normalità, riuscendo al massimo a dirci che cosa essa non è. Così, continua Frances, la normalità finisce per essere “sotto esproprio – e se guardiamo con attenzione, forse noi tutti finiremo per scoprirci, chi più, chi meno, malati”. Questo va contro il senso comune che, basandosi su prassi socio-culturali largamente condivise, decreta e giudica in modo ingenuo o, peggio, dannoso. Andare dallo psicologo, invece, non determina alcuna accezione valoriale: tutt’al più, può descrivere una persona che, avendo curiosità, dubbi, difficoltà o disturbi di natura psicologica, si reca dal professionista più indicato cui sottoporli.
da Deva Osti | Set 19, 2018 | Articoli
Nella rubrica Il dubbio psicologico proverò a fare chiarezza su alcuni quesiti della psicologia. Iniziamo con l’ANSIA!
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1. L’ansia è uno stato patologico
VERO
Sbagliato!
L’ansia non è altro che un effetto psico-fisiologico ad una percezione di base che ci accomuna, ovvero la paura. La paura, diversamente da quanto si pensa, è tra i nostri migliori alleati: è fondamentale per adattarsi all’ambiente circostante poiché ci allerta di fronte a minacce e ci permette di fronteggiare situazioni dopo averle riconosciute come pericolose. L’aumento della frequenza cardiaca, del respiro e della pressione arteriosa permette di deviare più ossigeno e sangue ai muscoli, specialmente degli arti inferiori, rendendoli tesi e pronti per l’azione (al contrario degli organi interni e del viso, che infatti diventa pallido); la mente diventa più vigile, concentrandosi su un pensiero dominante di salvaguardia, mentre altri sistemi – come quello immunitario e digestivo – diminuiscono o rallentano (con classici sintomi come nausea o nodo alla gola) perché non indispensabili alla situazione di attacco-fuga. Dunque, un certo grado di ansia può essere utile, non solo in presenza di un pericolo fisico, ma anche in alcune attività che richiedono impegno, concentrazione e attenzione (ad esempio prima di un esame o un colloquio di lavoro). Sotto una certa soglia, l’ansia è funzionale perché permette all’individuo un buon grado di performance! La durata dello stato ansioso dipende da ciò che si pensa o immagina; in ogni caso essa ha sempre una curva che prevede una salita e una discesa naturale, al termine della quale passa da sola senza dover fare nulla. Nessuno dei sintomi sperimentati durante uno stato ansioso indica che la persona è malata o ha dei disturbi psicologici: sono sintomi spiacevoli e fastidiosi che, tuttavia, non comportano conseguenze gravi per la persona. Lo stato ansioso diviene patologico quando supera la soglia della funzionalità, conducendo l’organismo ad un vero e proprio tilt psico-fisiologico, il panico: l’individuo sperimenta ricorrenti picchi ansiosi che causano disagio intenso, è costantemente preoccupato o spaventato di avere ulteriori attacchi di panico, oppure modifica il proprio comportamento a causa degli attacchi stessi, attivando così una sorta di circolo disfunzionale che mantiene e peggiora la situazione.
FALSO
Giusto!
L’ansia non è altro che un effetto psico-fisiologico ad una percezione di base che ci accomuna, ovvero la paura. La paura, diversamente da quanto si pensa, è tra i nostri migliori alleati: è fondamentale per adattarsi all’ambiente circostante poiché ci allerta di fronte a minacce e ci permette di fronteggiare situazioni dopo averle riconosciute come pericolose. L’aumento della frequenza cardiaca, del respiro e della pressione arteriosa permette di deviare più ossigeno e sangue ai muscoli, specialmente degli arti inferiori, rendendoli tesi e pronti per l’azione (al contrario degli organi interni e del viso, che infatti diventa pallido); la mente diventa più vigile, concentrandosi su un pensiero dominante di salvaguardia, mentre altri sistemi – come quello immunitario e digestivo – diminuiscono o rallentano (con classici sintomi come nausea o nodo alla gola) perché non indispensabili alla situazione di attacco-fuga. Dunque, un certo grado di ansia può essere utile, non solo in presenza di un pericolo fisico, ma anche in alcune attività che richiedono impegno, concentrazione e attenzione (ad esempio prima di un esame o un colloquio di lavoro). Sotto una certa soglia, l’ansia è funzionale perché permette all’individuo un buon grado di performance! La durata dello stato ansioso dipende da ciò che si pensa o immagina; in ogni caso essa ha sempre una curva che prevede una salita e una discesa naturale, al termine della quale passa da sola senza dover fare nulla. Nessuno dei sintomi sperimentati durante uno stato ansioso indica che la persona è malata o ha dei disturbi psicologici: sono sintomi spiacevoli e fastidiosi che, tuttavia, non comportano conseguenze gravi per la persona. Lo stato ansioso diviene patologico quando supera la soglia della funzionalità, conducendo l’organismo ad un vero e proprio tilt psico-fisiologico, il panico: l’individuo sperimenta ricorrenti picchi ansiosi che causano disagio intenso, è costantemente preoccupato o spaventato di avere ulteriori attacchi di panico, oppure modifica il proprio comportamento a causa degli attacchi stessi, attivando così una sorta di circolo disfunzionale che mantiene e peggiora la situazione.
2. Una buona psicoterapia può aiutarmi a non provare più ansia
VERO
Sbagliato!
L’ansia, come detto, non è uno stato patologico. Una buona psicoterapia può aiutarti a gestire questo tipo di allerta somatopsichica, specialmente quando diventa invalidante e ti fa soffrire, ma non ne annulla la presenza, che invece è un sintomo che dimostra la vitalità di un essere umano. Un percorso psicoterapeutico può aiutare a risolvere definitivamente situazioni invalidanti come gli attacchi di panico e, al contempo, ad accettare l’ansia come espressione di un corpo che si muove e avanza.
FALSO
Giusto!
L’ansia, come detto, non è uno stato patologico. Una buona psicoterapia può aiutarti a gestire questo tipo di allerta somatopsichica, specialmente quando diventa invalidante e ti fa soffrire, ma non ne annulla la presenza, che invece è un sintomo che dimostra la vitalità di un essere umano. Un percorso psicoterapeutico può aiutare a risolvere definitivamente situazioni invalidanti come gli attacchi di panico e, al contempo, ad accettare l’ansia come espressione di un corpo che si muove e avanza.
3. L’ansia aiuta a conoscere meglio me stesso
VERO
Dipende da come reagisci!
L’ansia è attivazione di fronte a una potenziale minaccia o pericolo. Talvolta questo rischio può non essere evidente, o coincidere con un pensiero: il corpo in ogni caso suggerisce che ti trovi in una posizione non usuale né comoda per il tuo equilibrio, e ti mette di fronte a un bivio. La prima strada, più istintiva, è quella dell’evitamento e del ritiro in lidi di comfort per sedare subito l’allarme e sentirsi al riparo: questa via è rassicurante in un primo momento, ma non incide positivamente né sulla gestione dell’ansia, che ritornerà trovandoti impreparato, né su di te come persona. Come puoi capire se un pericolo è tale voltandogli le spalle? La seconda possibilità è quella di perseverare, continuando ad agire anche con l’ansia: con molta probabilità scoprirai che l’allarme rientra e che, rendendo abituali alcune azioni ritenute straordinarie, acquisirai nuove capacità e abilità, rinforzando inoltre la sensazione di saper fronteggiare in maniera efficace altre situazioni scomode.
FALSO
Dipende da come reagisci!
L’ansia è attivazione di fronte a una potenziale minaccia o pericolo. Talvolta questo rischio può non essere evidente, o coincidere con un pensiero: il corpo in ogni caso suggerisce che ti trovi in una posizione non usuale né comoda per il tuo equilibrio, e ti mette di fronte a un bivio. La prima strada, più istintiva, è quella dell’evitamento e del ritiro in lidi di comfort per sedare subito l’allarme e sentirsi al riparo: questa via è rassicurante in un primo momento, ma non incide positivamente né sulla gestione dell’ansia, che ritornerà trovandoti impreparato, né su di te come persona. Come puoi capire se un pericolo è tale voltandogli le spalle? La seconda possibilità è quella di perseverare, continuando ad agire anche con l’ansia: con molta probabilità scoprirai che l’allarme rientra e che, rendendo abituali alcune azioni ritenute straordinarie, acquisirai nuove capacità e abilità, rinforzando inoltre la sensazione di saper fronteggiare in maniera efficace altre situazioni scomode.
da Deva Osti | Giu 13, 2018 | Articoli
“Il piacere è l’alfa e l’omega dell’esistenza” – Epicuro
Prova a chiudere gli occhi e a farti questa domanda “Cosa farei ora se avessi la libertà di realizzare ogni mia fantasia?”
Probabilmente avrai pensato a qualcosa di gratificante per te, ovvero qualcosa che va nella direzione del piacere.
E questo proprio perché il piacere è il motore di molte nostre azioni, o almeno così sarebbe auspicabile! Senza piacere la vita diventa insignificante e vuota.
Il piacere può essere descritto come un sentimento o un’esperienza che rimanda alla percezione di una condizione psico-fisica positiva e che esercita un’influenza benefica sulla persona.
“Senza piacere non vi è vita; la lotta per il piacere è la lotta per la vita” – F. Nietzsche
Il piacere è inoltre una delle quattro sensazioni primarie che, insieme a paura, dolore e rabbia accomuna gli esseri umani permettendo il loro adattamento in senso evoluzionistico.
Il piacere assolve, infatti, l’importante funzione di fornire all’individuo la motivazione a svolgere un’attività. È stato fondamentale in tempi di sopravvivenza, in quanto sollecitante la ricerca del cibo, del sesso e dell’affetto; detto in altri termini, ciò che è stato necessario per svolgere le funzioni primarie per la sopravvivenza, biologiche, mentali e spirituali si è ben presto trasformato in piacevole.
Venute meno le necessità di sopravvivenza, stimoli sempre più variegati, privi di valore evoluzionistico, ma rinforzati da convenzioni sociali e culturali, si sono trasformati in potenti meccanismi di stimolazione del piacere. Ne sono un esempio il denaro, il riconoscimento sociale e lo sport.
La moderna neuropsicologia prova che il cervello si plasma adattandosi alle esperienza reiterate: ripetendo un’azione o un pensiero un certo numero di volte, non solo essi diventano ragionevoli, ma anche piacevoli.
In linea teorica, dunque, qualsiasi tipo di comportamento, in virtù della sua reiterazione assume valenza piacevole e stimolante.
Il piacere è lo scoglio sul quale gli esseri umani amano naufragare
Le esperienze piacevoli non vanno e, potremmo dire ancora meglio, non possono essere evitate, ma è importante che non finiscano per dominarci.
Come già detto, i circuiti del piacere possono essere innescati da svariati comportamenti: il piacere diventa un ostacolo quando spezza l’equilibrio della mente trasformandosi in un’ossessione per il godimento che ne deriva o nell’avversione per tutto ciò che ce ne allontana. In altre parole quando si trasforma in una compulsione, ovvero in un comportamento inevitabile, irrefrenabile e rituale di cui non riesco ad avere il controllo: i circuiti del piacere, se eccessivamente stimolati, innescano comportamenti compulsivi da abuso e dipendenza, molto difficili da controllare con la sola forza di volontà.
Perciò, oltre una certa soglia avviene il salto qualitativo che fa passare dalla funzionalità (ho il controllo del comportamento) alla disfunzionalità (sono travolto dal rituale).
Esempi di comportamenti disfunzionali basati sul piacere sono ad esempio la dipendenza da esercizio fisico, lo shopping compulsivo, la chat mania, il gioco d’azzardo patologico, la sindrome da vomiting (mangiare per vomitare), forme di autolesionismo (come lo strapparsi i capelli, tagliuzzarsi, procurarsi piccole bruciature), le parafilie, la dipendenza da sostanze ecc ecc.
Qualsiasi tipo di comportamento, per quanto inizialmente innocuo può, quindi trasformarsi, nel tempo in una prigione che ingabbia la persona e che si rinforza proprio in virtù della valenza piacevole dell’atto in sé.
Come si formano le compulsioni basate sul piacere?
Si compie un atto, lo si ripete, ancora e ancora: qualunque atto ripetuto per un certo tempo si struttura come inevitabile e piacevole. A livello neuronale vengono stimolati gli stessi circuiti, che si rinforzano, mentre si indeboliscono le altre aree.
Come gestire il piacere in maniera sana evitando di esserne travolti?
1. EVITARE LA GRATIFICAZIONE IMMEDIATA
Tenere a mente che spesso “l’attesa del piacere è essa stessa il piacere”(E. Lessing). Evitare la ricerca perenne del piacere, saper desiderare e attendere. Apprendere a dosare le gratificazioni immediate consente di fortificare la propria capacità di autocontrollo: ciò che è guadagnato con attesa e sforzo assume un valore e può essere goduto appieno.
2. RICONOSCERE I CAMPANELLI D’ALLARME
Valutare quando un comportamento piacevole diventa inevitabile, irrefrenabile e rituale, ovvero è agito in automatico, senza un nostro controllo cosciente. Questo è un campanello di allarme e indica che il piacere ci sta travolgendo. Valutare le conseguenze che questo agire ha sulla nostra quotidianità, in termini di limitazione di altre esperienze (attività, relazioni, pensieri e immaginazione).
3. DISTINGUERE IL PIACERE DALLA FELICITÀ
Meditare su ciò che procura la felicità (Epicuro): la ricerca del piacere disgiunta da un pensiero progettuale difficilmente, a lungo termine, conduce ad una vita piena e soddisfacente. Comunque, il piacere può essere un formidabile strumento pratico per la ricerca della felicità. Come? Rendendo piacevoli, nel presente, quelle azioni che ci consentiranno di raggiungere obiettivi personali a lungo termine perché la spinta del piacere è un motore potente di generazione, se indirizzata opportunamente!
da Deva Osti | Apr 12, 2016 | Articoli
In una società opulenta come la nostra il cibo non è solo alimento, ma assume valenze e significati che spesso vanno al di là del puro bisogno di nutrimento.
Abbuffarsi, ovvero mangiare grandi quantità di cibo e con ingordigia, è un comportamento purtroppo comune e, se reiterato, si struttura come vero e proprio disordine alimentare.
Paradossalmente questo comportamento può nascere come un effetto dell’eccessivo controllo sul cibo, oppure diventare uno stile di comportamento e perfino farsi strategia di fronteggiamento delle difficoltà della vita. Vediamo in dettaglio:
TENTATIVO DI CONTROLLO CON EFFETTO PARADOSSO
“Come mai il pitone mangia una grande preda?”
“Perché prima ha digiunato tanto!”
Questo è il tipico meccanismo di chi si abbuffa dopo un periodo di rigido controllo alimentare, che va dalla restrizione della quantità e della qualità del cibo, fino all’astinenza attraverso il digiuno.
Ciò che conduce all’abbuffata è proprio il tentativo di mantenere per un lungo periodo un’alimentazione basata sul divieto che, contemporaneamente, induce e amplifica il desiderio verso ciò che ci si impone di evitare. Come un effetto molla, forza nella direzione opposta: alla prima occasione utile, la persona, incapace di vivere nella grigia ristrettezza alimentare, trasgredirà, abbandonandosi alla soddisfazione dei cibi più “pericolosi” attraverso l’abbuffata.
Questo effetto paradosso è uno dei principali meccanismi che spiegano come mai la maggior parte delle diete falliscono. Esse, basandosi su un’idea di controllo razionale del cibo, tralasciano la valenza più viscerale e sociale legata al mangiare, ovvero quella del piacere, per cui meno me lo concedo, più lo anelo.
COME EVITARE L’EFFETTO PARADOSSO?
“Il divieto non significa necessariamente astensione,
ma la pratica sotto forma di trasgressione”
Epicuro
Evitare regimi alimentari troppo restrittivi sia in termini di qualità che di quantità, accogliendo l’idea che ogni pasto dovrebbe soddisfare la parte nutritiva ma anche l’aspetto di godimento connesso al mangiare, concedendosi piccole trasgressioni piacevoli all’interno di ogni pasto. Se tollero la piccola perdita di controllo questa rimarrà tale e verrà dolcemente assimilata in un equilibrio stabile.
PERDITA DEL CONTROLLO
“Il piacere è come certe droghe medicinali:
per ottenere lo stesso risultato bisogna raddoppiare la dose”
H. de Balzac
Rientrano in questo meccanismo le persone che, spesso dopo tentativi fallimentari di controllo sul cibo, smettono di combattere e si lasciano completamente travolgere dal mangiare con ingordigia, convincendosi pian piano che vada bene così. Non esistono più divieti, ogni desiderio viene soddisfatto, con il risultato che il peso aumenta inesorabilmente e la salute si compromette. Nei casi più estremi le persone travolte da questo meccanismo negano il problema continuando a mangiare con apparente godimento, finché i disturbi fisici legati all’obesità diventano un’urgenza da non sottovalutare. L’atteggiamento permissivo nei confronti del cibo può riflettersi in uno stile di generale disregolazione anche su altri aspetti della vita, che va ad intaccare risorse, progettualità e il senso di auto-efficiacia della persona.
COME EVITARE LA PERDITA DI CONTROLLO?
“L’attesa del piacere è essa stessa il piacere”
G.E. Lessing
Valutare quando mangiare diventa un atto inevitabile, irrefrenabile e che non riesco a controllare. Evitare di mangiare fuori dai tre pasti principali è una buona strategia, non solo per mantenere il peso-forma ma anche per prevenire il lassismo alimentare. Saper desiderare e attendere, evitando le gratificazioni immediate, fortifica la propria capacità di autocontrollo, non solo sul cibo. Solo ciò che è guadagnato con attesa e sforzo assume valore e può essere goduto appieno.
IL CIBO COME RIFUGIO
“Mangiare è uno dei quattro scopi della vita…
Quali siano gli altri tre, nessuno lo ha mai saputo”
Proverbio Cinese
A chi non è capitato di ricorrere al cibo in un momento di sconforto, dolore o tristezza? Può però accadere che questa modalità diventi ridondante e si strutturi come stile di coping, ovvero di fronteggiamento di difficoltà e problemi: appartengono a questa categoria persone, solitamente in sovrappeso, che usano il cibo per riempire un vuoto di altro tipo, nell’incapacità di gestire la propria emotività e le relazioni con gli altri. Mangiare diventa una consolazione, un rifugio sicuro dalle insoddisfazioni e frustrazioni della vita dove il grasso funge da protezione relazionale. Solitamente sono persone che mangiano in maniera irregolare tutto il giorno o che sono costantemente a dieta; difficilmente riescono a mantenere il peso-forma privandosi della loro “corazza lipidica”, poiché nel dimagrire si esporrebbero agli effetti pericolosi dell’essere desiderabili. Così ricominciano a mangiare per proteggersi.
COME EVITARE DI RIFUGIARSI NEL CIBO?
“Che strana cosa il piacere e il dolore;
sembra che ognuno di loro segua sempre il suo contrario
e che tutti e due non vogliano mai trovarsi nella stessa persona”
Socrate
Insieme al mantenimento della regola dei tre pasti, è necessario accostare dei momenti di espressione e canalizzazione della propria emotività in modo che questa non venga “gestita” col ricorso al cibo. L’espressione di sé attraverso la scrittura è una modalità utile ed efficace in questi casi.
Consigli di lettura:
G. Nardone, L. Speciani “Mangia, muoviti, ama”, Ponte alle Grazie, 2015
L. Bergami et al “Dieta o non dieta”, Ponte alle Grazie, 2014
G. Nardone “La dieta paradossale”, Ponte alle Grazie, 2007
J. W. Pennebaker “Scrivi cosa ti dice il cuore”, Erickson, 2004
da Deva Osti | Dic 28, 2015 | Articoli
“La realtà si divide in cose soggette al nostro potere
e cose non soggette al nostro potere”
Epitteto
Quali sono le cose in nostro potere e quali no?
Epitteto, filosofo della Grecia antica, sostiene che, in definitiva, ciò che è in nostro potere siano i nostri pensieri e ciò che crediamo, i nostri atteggiamenti e ciò che facciamo, mentre, su tutto ciò che è esterno a noi abbiamo un potere limitato o nullo.
Il filosofo sprona i lettori a porre attenzione alle cose in nostro potere, perché solo quelle saranno modificabili e migliorabili. Al contrario, volendo agire su ciò che non è in nostro potere, saremo destinati a fallire nei nostri intenti evolutivi.
Leggendo le parole di questo grande pensatore, rifletto su quanto comune e umana sia la tendenza nel prodigarsi in sforzi intensi per cambiare le situazioni esterne a noi (e quanto fallimentari siano i risultati di questo esercizio!), e a come sia difficile mettere in discussione la propria realtà privata.
Questo, d’altro canto, è uno dei principali meccanismi di funzionamento degli esseri viventi, ovvero il mantenimento della propria omeostasi, quella condizione di stabilità interna che “fa sentire unito” e che oppone resistenza ai cambiamenti strutturali. L’omeostasi tende a mantenersi anche quando è disfunzionale, ovvero quando la persona soffre e sta male.
Penso, ad esempio, alle azioni tipiche di una persona invalidata da una paura percepita come enorme e totalizzante, una fobia.
Per tentare di cambiare in meglio la propria situazione, superando la paura, usualmente, anziché mettere in discussione la propria percezione fobica, la assume come verità e tenta, in virtù di essa, di modificare ciò che la circonda.
Essa tenderà, per scacciare la paura, a tenere sotto controllo:
- Il proprio ambiente circostante, evitando sistematicamente luoghi e situazioni che le possano minacciare;
- Il proprio corpo, imponendosi un’imperturbabilità fisiologica di fronte a possibili avvisaglie di pericolo;
- Le persone che la circondano, che dovranno aiutarla, sostenerla e fungerle da stampella, laddove si trovasse a dover affrontare una situazione intimidatoria.
Pensare di poter avere un controllo assoluto sulla realtà circostante, sul proprio corpo e sugli altri è una pia illusione. Prima o poi qualche meccanismo sarà destinato a saltare, potrà ad esempio:
- Presentarsi una nuova situazione di vita (un licenziamento, un trasloco, un terremoto, una nuova relazione…) che metterà la persona di fronte a ciò che teme cogliendola impreparata: l’unica via nota sarà la fuga, e la conferma delle proprie paure e incapacità di fronteggiamento;
- Il corpo controllato, nelle sue risposte fisiologiche e involontarie allo stimolo della paura, produrrà l’effetto paradossale del panico, ovvero della paura all’ennesima potenza;
- Una o più persone che dapprima sostenevano amorevolmente il ruolo di primo soccorritore, potrebbero stufarsi di assolvere esclusivamente tale incarico e cominciare ad esortare la persona fobica ad uscire dalla propria passività: la persona rimarrà quindi sola, con la propria paura (e pure con la rabbia!).
Questo mi pare esemplare di come, volendo agire su ciò che meno possiamo controllare, non solo non risolviamo il problema, ma, anzi, lo peggioriamo: la paura cresce, si generalizza e mangia tutto, fino ad arrivare, negli estremi logici di tale percorso, ad un evitamento costante, al chiudersi in una gabbia dorata, all’interno della quale la paura tace, ma dove il movimento e la vita sono ridotti e continuamente minacciati da imminenti restringimenti del campo d’azione.
Cosa vuol dire e come può essere di aiuto invece, in questo caso, lavorare “sulle cose in nostro potere”?
Significa, in concreto, usare la propria percezione fobica come materiale di lavoro, e non come dato di realtà immutabile, e modificarla, da soli, o con l’aiuto di un esperto, attraverso stratagemmi calzanti che lavorino sulle proprie sensazioni, pensieri e comportamenti. In breve, lavorare su ciò che è in nostro potere cambiare, ovvero noi stessi e la nostra realtà privata, anziché cercare di esercitare un controllo sulla realtà esterna.
Epitteto ci aiuta a porre il dubbio e ad essere scettici rispetto alle nostre credenze e convinzioni, atteggiamenti ed azioni; ci sprona a lavorare attivamente su di sé senza dare per scontato che ciò che proviamo, sentiamo e facciamo sia un dato immutabile, ma assumendoci la responsabilità del cambiamento, senza cercare colpevoli o ristoratori del nostro malessere fuori da noi, in cose che non possiamo mutare come gli altri, il passato, il tempo, la politica, il caso, la morte etc.
Al contempo ci invita ad accettare una certa dose di incertezza, poiché sono molte le cose che non possiamo controllare, preservandoci così da un’onnipotenza cieca e utopica e da inutili sensi di colpa.
“A ogni singola cosa che incontri, ricorda di rivolgerti a te stesso per cercare di quale facoltà tu disponga in relazione ad essa. […] se ti abitui così le rappresentazioni non ti travolgeranno”
Epitteto
Consigli di lettura:
Manuale di Epitteto
G. Nardone “Paura, panico, fobie. La terapia in tempi brevi”, Tea Editore, 2010
da Deva Osti | Nov 23, 2015 | Articoli
“Togli il NON dalla frase NON POSSO” – S. Johnson
Punto di partenza: L’AUTOSTIMA NON SI EREDITA, SI COSTRUISCE
L’autostima può essere definita come quel senso di autocompiacimento e di valutazione positiva di se stessi. Una buona stima di sé è importantissima per una soddisfacente realizzazione personale, professionale e relazionale, tanto che, di fronte a momenti di blocco, nella nostra vita o in quella di chi ci circonda, la frase di rito è spesso: “se solo avessi/avesse più autostima!”.
Ma per capire come potersi migliorare, occorre per prima cosa sfatare qualche credenza popolare che potrebbe portare fuori strada…
IL GENE DELL’AUTOSTIMA
L’idea che un costrutto psichico come quello di “autostima” possa essere in qualche modo geneticamente predeterminato va contro ogni evidenza scientifica! È molto in voga, oggi, cercare di scovare determinanti biologiche che possano spiegare il nostro stato mentale, questo viene fatto per la depressione come per altri stati del nostro essere.
La ricerca di questo tipo però, non considera, a mio avviso, una componente fondamentale dell’essere umano, ovvero il fatto che, per noi, il cambiamento è una costante piuttosto che una rarità. Siamo esseri dinamici e ciò che ci caratterizza oggi potrebbe non rappresentarci più domani; insinuare la credenza che la percezione di noi sia data esclusivamente da come siamo stati programmati biologicamente rischia di fossilizzare la realtà e inibire la spinta migliorativa; si rischia, in sostanza di cadere nella trappola “sono nato/a così, che ci posso fare?”. Se deleghiamo al caso, siamo perdenti di sicuro.
AUTOSTIMA SI’ o AUTOSTIMA NO
L’autostima non è un valore, qualcosa che o si ha o non si ha! Non è qualcosa che, se acquisito, rimarrà invariato nel tempo. Essa è un processo che si inserisce in un continuum ed è influenzata da ciò che pensiamo, sentiamo e dal contesto in cui siamo inseriti ed è quindi mutevole come lo sono le esperienze della nostra vita. Può capitare, infatti, che in determinate situazioni siamo a nostro agio, ci sentiamo competenti e soddisfatti di noi, mentre in altre succede proprio il contrario. Ognuno di noi, quindi, vive queste oscillazioni nella stima di sé, fa parte del gioco della vita!
SE SOLO MI AVESSERO VOLUTO PIU’ BENE!
Un contesto familiare ed educativo amorevole ed accettante, che sappia favorire e rinforzare apprendimenti ed autonomie crea sicuramente un humus favorevole per lo sviluppo di una buona stima di sé ma, in definitiva, essa rimane il frutto di una costruzione intimamente personale.
L’idea che la stima che abbiamo di noi derivi da ciò che abbiamo vissuto da piccoli è, non solo ingenua, ma anche pericolosa, poiché il rischio è quello di delegare ad altri qualcosa che riguarda solo noi. L’autostima non può essere donata dagli altri! La stima di sé è una ricchezza personale, risultato di sforzi e successi ottenuti in prima persona. Mai nessun “bravo” varrà quanto un “ce l’ho fatta” nella costruzione di una solida stima di sé.
E allora come fare per potenziare la stima di sé? Passo dopo passo…
Passo 1 EVITA DI EVITARE
Se cerchi un modo per fuggire da ciò che ti spaventa o che ti sembra troppo grande per le tue capacità, sappi che fuggirai! Se parti già in anticipo con l’idea che non ce la farai, il fallimento è dietro l’angolo. Evitare di affrontare una situazione o una nuova esperienza perché non ti senti all’altezza, inizialmente ti farà sentire al sicuro, ma alla lunga non farà che minare il tuo senso di auto-efficacia.
Spesso le persone che lamentano bassa autostima usano questa strategia fallimentare, fino a relegare la propria vita all’interno di una cornice rassicurante ma poco stimolante e soddisfacente.
Il primo passo per potenziare la nostra stima sarà quindi quello di dirigere lo sguardo verso ciò che ci risuona come poco rassicurante.
Passo 2 AGISCI PER CONVINCERTI, NON IL CONTRARIO!
Non basta pensare positivamente… occorre mettersi alla prova, ora ti spiego come mai!
Allontanati dall’“autostima cognitiva”, ovvero quella modalità di auto-rinforzo intellettuale, tipica delle persone che si ripetono “sono il migliore”, “so tutto io”, “sono bravo”, nell’intento di confermarsi capaci o di incrementare la propria autostima. Questo tipo di celebrazione volontaria di sé rischia di sgonfiarsi, se non confermata alla prova dei fatti. Il pericolo è quello di farsi bastare un tale autoinganno senza verifica… questa non tarderà ad arrivare, del resto la vita è piena di sfide, e il primo fallimento farà svanire tante belle premesse come neve al sole. L’idea è di abbandonare questo tipo di modalità, e rivolgersi ad un’altra, più funzionale.
Avvicinati all’ “autostima esperienziale”, ovvero quell’atteggiamento neutrale di chi non si aspetta troppo ma si dice che per far andare le cose come si vorrebbero bisogna impegnarsi. Questa disposizione porta a fare, a mettersi alla prova, a riconoscere i propri limiti e valicarli …solo ciò che si è guadagnato con impegno e fatica acquista valore. L’autostima sarà la conseguenza naturale di ciò che si è ottenuto in prima persona con dedizione e impegno. Essa è quindi il punto di arrivo, non di partenza!
Passo 3 CONSOLIDA LA TUA AUTOEFFICACIA
Mano a mano che si sperimentano esperienze migliorative e il proprio senso di autoefficacia cresce è sempre bene tenerlo vivo orientandosi verso nuovi obiettivi e alzando sempre un po’ l’asticella! Maggiori saranno i nostri successi personali, più la percezione di sé come auto-efficaci sarà destinata a diventare duratura e stabile. Solo con l’allenamento quotidiano un primo cambiamento diventa una disposizione naturale del nostro essere.
Se poi noti che c’è ancora qualcosina su cui tiri indietro… beh, basta fare un passo indietro per compierne due in avanti!
da Deva Osti | Nov 21, 2015 | Articoli
“Ci sono due lasciti durevoli che possiamo dare ai nostri figli. Uno sono le radici, l’altro sono le ali” – H. Carter jr
L’adolescenza è una delle più importanti fasi di crescita dell’individuo: un periodo nel quale non si possiede né un corpo né una mente ben definiti, non si è ancora autonomi nell’organizzare la propria esistenza, ma ci si avvia a essere adulti.
È una fase di scompiglio, sotto vari punti di vista. Primo fra tutti, il corpo, che si trasforma, in maniera spesso disarmonica. Cambia il modo con cui lo si guarda ed esso diviene il fulcro attorno cui ruotano pensieri, emozioni e sentimenti. L’adolescenza è, per definizione, quel processo di adattamento psichico ad un cambiamento innanzitutto fisico.
Ragazzi e ragazze attraversano le fasi importanti della propria crescita con ritmi diversi, ma prima o poi tutti raggiungono le stesse tappe e le differenze individuali diventano la conferma della propria unicità.
La curiosità verso il nuovo corpo, così velocemente trasformato, spinge alle prime esperienze sessualizzate, in principio di auto-erotismo, che, col tempo si fanno relazionali. Sotto la pressione ormonale nascono le prime infatuazioni e gli innamoramenti, veri e propri concentrati di emotività e sensazioni piacevoli. Tipica di questo periodo è l’alternanza di opposti stati emotivi, poiché l’umore è facilmente in balia di un’emotività nuova, che col tempo verrà gestita e contenuta, anche grazie ad un pensiero in grado di funzionare in astratto.
Gli amici e il gruppo dei pari assumono un’importanza fondamentale: con i coetanei ci si sente protetti, sicuri, capiti, si scoprono quelle somiglianze che rassicurano, essi diventano punto di riferimento e modello; l’amicizia diventa un legame affettivo, una relazione più solida e matura.
Questi e altri forti cambiamenti fisici e psicologici vedono l’adolescente impegnato nella revisione dell’immagine di sé e nella definizione di una sua nuova posizione: non è detto che questa transizione debba portare a conseguenze catastrofiche. Egli costruisce il proprio mondo attraverso esperienze concrete che gli permettono di anticipare le situazioni, costruire repertori, mappe, sistemi percettivo-cognitivi per affrontare le varie circostanze.
Anche il rapporto con i genitori si evolve e, se da bambini essi hanno un’importanza fondamentale come modello di identificazione, durante l’adolescenza il gruppo dei pari diventa il punto di riferimento più significativo. La famiglia rimane comunque la prima agenzia educativa: il rapporto con i genitori cambia, diventa un confronto paritario, rispetto alla dipendenza subordinata del bambino nei confronti del proprio genitore.
I genitori, durante questa fase delicata dei loro figli, possono svolgere un ruolo importante nel facilitare un passaggio positivo verso il mondo adulto, a patto che riescano a ridefinire il loro ruolo genitoriale (rispetto alle precedenti fasi infantili), in modo da saper fronteggiare efficacemente possibili difficoltà e momenti di crisi del proprio figlio.
I genitori con figli adolescenti dovrebbero muoversi con leggerezza e cautela e molto spesso stare fermi è l’opzione migliore: la strategia più efficace con figli adolescenti è OSSERVARE SENZA INTERVENIRE, in altre parole guardare il figlio mentre si “allontana” e sperimenta la propria autonomia.
Osservare senza intervenire significa, in concreto:
– Evitare di fare al posto suo, sacrificarsi per lui, proteggere eccessivamente il figlio dalle sue sfide quotidiane (scuola, sport, relazioni…). Solo in questo modo si consente al proprio figlio di sperimentare la propria autonomia, valutare le conseguenze delle proprie azioni e costruire un senso di responsabilità individuale. Il figlio è spronato a sganciarsi da modalità infantili di dipendenza e a costruirsi una identità matura, dove ha modo di accrescere il suo senso di autoefficacia ed autostima, affrontando ostacoli e sfide in prima persona e imparando dai propri errori.
– Evitare di intervenire in maniera troppo pedagogica, centellinando consigli, spiegazioni, comizi a scopo persuasorio e allarmismi infondati.
Il genitore è un esempio nei fatti più che nelle parole: gli adolescenti hanno bisogno di modelli da imitare piuttosto che di “insegnanti predicatori”. Le modalità comunicative dei genitori cambiano rispetto a fasi precedenti dello sviluppo: per instaurare una relazione rispettosa e attenta, che favorisca il confronto e l’apertura da parte del figlio, è necessario sostituire alle affermazioni delle domande; chiedere verifica anziché sentenziare; evocare piuttosto che spiegare (parlare all’emisfero destro oltre che al sinistro) e agire anziché un parlare eccessivamente sulle cose.
– Evitare allarmismi e un eccessivo interventismo genitoriale. Questa attitudine consente di agire laddove sopraggiunga una reale necessità, ovvero quando i genitori scorgano nel figlio una situazione di difficoltà perdurante, un disagio emotivo o un reale pericolo. È proprio durante l’adolescenza, infatti, che la psicopatologia si struttura: un genitore in grado di osservare attentamente proprio figlio saprà cogliere maggiormente i segnali di disagio e assumere le redini della situazione, rispetto ad un genitore entrante e invadente.
In conclusione, gli adolescenti devono essere stimolati ad agire senza che i genitori si sostituiscano a loro ma alzando il tiro, facendo in modo che si meritino tutto quello che avranno attraverso sforzi concreti e fatiche poiché “quanto giunge con facilità non sembra importante mentre quello che viene conquistato acquista valore”.
Consigli di lettura:
G. Nardone et al. “Aiutare i genitori ad aiutare i figli – problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, Ponte alle Grazie, 2012
da Deva Osti | Nov 21, 2015 | Articoli
Partendo dalla massima di Nietzsche secondo cui “ogni rapporto che non eleva abbassa”, ecco qualche riflessione sulla vita di coppia. Senza la pretesa di essere esaustiva, mi sembrano dei punti fondamentali per una relazione positiva e arricchente.
1. RISPETTO COME PARTENZA E ARRIVO
“La forma più vera di amore è come ti comporti verso qualcuno, non cosa senti per lui” – S. Hall
Il rispetto di sé e dell’altro è l’ingrediente principale per una riuscita relazione di coppia, è la presa d’atto di quanto ogni essere umano sia unico e speciale, nei suoi modi di sentire, pensare e agire.
Attraverso questo atteggiamento diamo valore e dignità ai sentimenti e alle divergenze, ci apriamo al confronto, all’intimità, alla condivisione e mettiamo alla porta giudizi e aspettative illusorie sull’altro. Inoltre, alleniamo la flessibilità mentale, aprendoci all’incertezza della vita e imparando a rinunciare ad autoinganni potenzialmente nocivi per la coppia come l’idea di perfezione, di possesso e di controllo.
Attuare questo atteggiamento nella coppia, implica esercizio, poiché spesso è facile opporre il nostro punto di vista come unico, valido e sensato, anche di fronte a chi amiamo. L’esercizio del rispetto, nei gesti, nelle parole e nei comportamenti ripaga, in quanto porta con sé una gestione funzionale degli inevitabili contrasti della vita a due, prevenendo il deteriorarsi di situazioni e del legame di coppia.
Alcune strategie utili, in tal senso, per validare entrambi i punti di vista, aprire al dialogo e al cambiamento e predisporre un clima di rispetto nella relazione sono:
– ascoltare in maniera attenta, empatica ed attiva;
– domandare, chiedere verifica e collaborazione anziché affermare, sentenziare e accusare;
– parlare in prima persona usando un linguaggio evocativo (immagini o metafore) per far sentire all’altro come ci sentiamo, anziché spiegare, puntualizzare, recriminare e predicare.
2. COLTIVARE UN SANO EGOISMO
“L’amore è lo scambio di due fantasie e il punto di incontro di due egoismi” – P. Auguez
La coppia è più della somma di due individui: è un “terzo” elemento, un incastro esclusivo e magico di corpi e chimica, di storie e sensazioni, di parole e silenzi, di gesti e speranze …e chi più ne ha più ne metta! Per essere vitale essa va nutrita e coltivata giorno per giorno da parte di entrambi.
Se i suoi confini, però, si chiudono e diventano rigidi, se i membri della coppia si fondono, o si impediscono esperienze individuali, essa perde linfa vitale e la coppia rischia di diventare un involucro sterile.
I due componenti della coppia necessitano di godere di una propria autonomia vitale, ovvero di assentarsi, assaporare momenti da soli e con altre persone, fare sentire all’altro che si sta bene da soli, costruire materiale personale per realizzarsi anche in altri contesti: in poche parole, nutrire un sano egoismo.
Il ritorno nella coppia sarà un piacere, la coppia sarà arricchita e stimolata dalle esperienze reciproche!
3. DARE È GIÁ RICEVERE
“Il piacere di piacere è il culmine del piacere” – G. Nardone
Se gli esseri umani coltivassero questa semplice regoletta, la maggior parte dei problemi relazionali si risolverebbero! Chi non ha provato sulla propria pelle l’ebrezza che provoca uno sguardo di ammirazione, il piacere derivante da un gesto di affetto gratuito e il calore da un tocco gentile? Far sentire l’altro speciale e unico, apprezzato e amato richiede di mettere se stessi in secondo piano, apparentemente, e rendere l’amore protagonista. Questo atteggiamento ripagherà, in quanto predispone l’altro a ricambiare.
Dare, in tutti i sensi, significa anche alimentare la passione, evitando il “tutto è dovuto”, pena la morte della relazione; saper coltivare l’arte del corteggiamento nella relazione, nonostante il passare del tempo, è uno stratagemma che eviterà di far scadere la relazione in routine.
In quest’ottica chi più ha più dà: in un amore sano non esistono disparità o giochi di potere. Ciò che conta è la condivisione, dove ognuno mette ciò che ha per fare stare bene entrambi, poiché come sostiene Seneca “nessun bene senza un compagno ci dà gioia”.
4. GESTIRE LA GELOSIA IN PRIMA PERSONA
“La sincerità a piccole dosi è pericolosa, a grandi è micidiale” – O. Wilde
La gelosia va gestita in prima persona, esprimendola il meno possibile, altrimenti diventa un veleno per la coppia.
Se essa viene socializzata, rischia di mantenersi e alimentarsi, fino a diventare ossessione o, peggio, paranoia, portando a sicura rovina il rapporto a due. Il modo migliore per ottenere questa ricetta fallimentare è mischiare i seguenti ingredienti: ricercare chiarimenti, fare domande, investigare e chiedere rassicurazioni al/alla proprio partner.
Cessare di voler sapere e mettere una pietra tombale sulle proprie paure è il miglior modo per ridimensionare la propria gelosia e vivere in maniera meno annebbiata il proprio rapporto di coppia.
5. RISOLVERE IN AUTONOMIA I PROPRI PROBLEMI PERSONALI
“E’ più facile vivere con qualcun altro che completare da soli se stessi” – B. Friedan
Tendenzialmente ci si cerca per compensare delle mancanze: così si formano la maggior parte dei legami affettivi e non c’è nulla di patologico in questo.
Quando però il livello individuale di sofferenza è elevato e le proprie difficoltà diventano problemi impedenti non c’è ricetta peggiore che cercare di attenuarli o risolverli tra le braccia di qualcuno! Il voler riparare ai propri problemi personali nella coppia è un autoinganno che, col tempo è destinato a rivelarsi fallimentare.
Ogni problematica o difficoltà individuale va gestita in prima persona, altrimenti si rischia non solo di farla perdurare ma, addirittura peggiorare, riversandola nella coppia e “imbruttendo” la relazione.
Il rischio, inoltre, è quello di infilarsi in una relazione di mutuo aiuto, di dipendenza affettiva o perversa, insomma, in un incastro esplosivo e disfunzionale.
Consigli di lettura:
G. Nardone “Correggimi se sbaglio – strategie di comunicazione per appianare i conflitti nelle relazioni di coppia”, Ponte alle Grazie, 2005.